Malattia, classismo, militarizzazione
In queste settimane da più parti si leva la voce contro le spese militari portate avanti in questi anni, a fronte di una contrazione progressiva di quelle sanitarie. “Più soldi per gli ospedali, meno soldi per i generali”, si diceva un tempo e mai come oggi la tremenda attualità di questo slogan si afferma con forza. Spesa sanitaria e militare rispetto al Pil hanno subito destini diversi negli ultimi anni: la prima ha perso 0,5% (dal 7% al 6,5%), l’altra ne ha guadagnati 0,18% (dal 1,25% al 1,43%, rispetto al 2020). Alcuni dati: 1,3 mld annui per le missioni militari all’estero (in numero di 36), circa 6 mld in armamenti vari (F-35, fregate FREMM, portaerei Trieste, ecc.) e 7 mld per mezzi blindati. Per la salute pubblica invece, si parla di 43.000 posti di lavoro tagliati e una riduzione solo negli ultimi dieci anni di 37 mld, tagli di ospedali e posti letto. Cifre che rendono ancora più insopportabile la tragedia in atto, anche se vanno collocate nella giusta luce di denuncia politica che riesca a darsi obiettivi che vada oltre l’immediata attualità, dato che, nella gestione dell’emergenza attuale, sono proprio i militari a “fare bella figura” nella guerra contro la pandemia. Ospedali da campo fioriscono in ogni dove ad opera delle principali forze armate.
Militari e polizia poi garantiscono, forse ben sopportati, l’ordine sociale, presentati come guardiani vigili pronti ad evitare delinquenziali assalti ai forni, disordini infettanti, accaparramenti di beni di prima necessità. La contiguità fra mondo militare e sanitario non esiste poi solo nella gestione di puntuali zone rosse, ma è insita nella stessa struttura gerarchica del mondo della salute. Non sono pochi i termini sanitari presi in prestito dal gergo di caserma: divisione, reparto, sezione ed unità per designare servizi di vario tipo. Nella stessa strutturazione presente poi nella classica fabbrica fordista. I rapporti interni al mondo sanitario ed ospedaliero sono da sempre gerarchici, sia nei confronti dei pazienti, sia tra gli operatori. Il malato obbedisce ciecamente al medico nel seguirne consigli e prescrizioni terapeutiche, al fine di vincere “la battaglia” contro la malattia, mentre gli operatori sanitari si muovono all’interno di una piramide sociale in cui ruoli e funzioni (stipendi, considerazione sociale, carichi di lavoro, etc.) sono rigidamente ripartiti. In questo i rapporti di lavoro sono parimenti modulati e, forse, oggi più che mai, durante la “guerra pandemica” in corso, risaltano all’attenzione.
Alla narrazione degli operatori sanitari eroi, attualmente in voga, si affiancano diverse testimonianze che mostrano, in molti casi, come contestazioni, denunce, rivelazioni di sorta siano state o siano ancora non solo censurate ma perseguite. È il caso, ad esempio, delle varie richieste di aiuto fatte in certi casi ai vertici politici e aziendali per strumenti e provvedimenti al fine di impedire l’aggravarsi di situazioni sanitarie, come nel caso di alcune residenze protette, di accessi ospedalieri in certe situazioni, o più semplicemente per il bisogno urgente di sicurezza lavorativa in termini di personale, presidi e spazi di sicurezza. I medici sono dei dirigenti cui non è concesso il diritto di parlare male della loro azienda. Gli altri operatori, subordinati, sono terrorizzati da ripercussioni di vario tipo, se “rivelano” importanti segreti militari, pardon sanitari.
Alla fine resta la percezione di una forma molto rozza della società, ben poco diversa da quella composta da guerrieri e sacerdoti, stregoni e monarchi, schiavi e vittime sacrificali sull’altare della piramide sociale ed economica. Nell’attuale guerra in corso contro la pandemia di Covid-19, gli eroi della salute pubblica sono troppo pressati da turni massacranti di lavoro, e non è dato sapere se domani, passata l’emergenza, o nella rottura dell’attesa spasmodica di un ritorno alla normalità, avranno la possibilità di disertare o ammutinarsi contro i generali della Caporetto socio-sanitaria italiana. Forse, in questo, è necessario cercare di superare facili (e necessari slogan) e costruire una lettura ampia, che consideri la pandemia in corso in un quadro causale che faccia riferimento ad una complessità di cause da prendere in considerazione.
La cesura pandemica
La pandemia in atto in questi primi mesi del 2020 è un evento che assumerà la forza di una cesura storica. Mentre si scrive il tempo rappresenta il “durante” dell’esperienza di vita che si sta attraversando, codificata attraverso un prima e un dopo: la lettura del prima permetterà la costruzione del dopo; la nostalgia del prima, condizionerà il dopo. La formula più immediata di interpretazione è legata alla frase: “niente sarà più come prima”, ricca di speranze e di rimpianti, aspettative e angosce; utile a passare i giorni della quarantena, ed a mettere in rilievo gli elementi della quotidianità del virus che mostreranno proiezioni del futuro prossimo.
Rilievi scientifici e prescrizioni istituzionali scompongono e ricompongono la realtà: l’uso di mascherine solo per i professionisti, poi per tutti, solo in certe situazioni oppure sempre, all’aria aperta, oppure no. C’è poi la distanza di sicurezza da mantenere ed i tempi di permanenza del virus nell’aria e sui materiali, assieme al defaticante quotidiano rosario recitato a suon di numeri di contagiati, vittime, guariti, a cura della Protezione civile. I dati a disposizione arrivano da ogni dove e prodotti da metodologie difformi, attuate in buona o in cattiva fede, consegnando alla fine un agire scientifico che appare come cangiante, quasi insicuro, a rischio, per qualcuno, di riverberi di complottismo, di mostrarsi sempre più strumento non neutrale di dominio, ma questa volta, ad uso esponenziale delle fake news dei social. La pandemia trascina con se tutta la fragilità del pensiero razionale dal mondo del sapere al mondo del credere, dalla conoscenza alla percezione istintiva che si tinge di stereotipi e pregiudizi. Si torna a gridare all’untore in direzione di chi fa una passeggiata con il cane o si diffida il monatto, esaltato come sanitario sui social media, ma allontanato quale possibile fonte di contagio.
I media nell’era della pandemia di Covid-19, con la reclusione forzata di milioni di persone, hanno reso ancora più reale il mondo virtuale dei social, trasformando in utopia attesa quello della realtà presente appena fuori della porta di casa. La rete, a livello italiano e mondiale, viene così attraversata da un traffico che si è moltiplicato in maniera enorme, utile a far ritrovare amici e colleghi, costruire chat e profili al fine non solo di passare il tempo, ma di comunicare con qualcuno, di sedare ancor più l’angoscia della solitudine, della quotidiana reclusione domestica, di ammalarsi e di morire da soli. I social ed ogni altra forma di media ufficiale hanno acquistato così una legittimità ulteriore rispetto a quella che già avevano, originando un’accelerazione nella strutturazione della società di domani già a partire dall’oggi: via mail la spesa e i referti medici, i bonifici bancari e le tesi di laurea, gli auguri di Pasqua e l’ennesimo modulo della polizia per giustificare la libertà di circolazione, a scadenza.
Se prima un qualcosa era vero perché lo diceva la televisione, ora si aspetta ancor più la mail, l’info-grafica, il telegiornale, che descriva la realtà in cui credere, per non cedere alla propria, sentita come fragile e misera, ignorante e mortalmente umana. Il numero rilevato dei morti viene messo a confronto con il passato o con il futuro, con questo o con quel paese a seconda del miglior uso consolatorio possibile. Il media amico però si ferma sulla porta di casa, nel momento in cui un’app telefonica o un drone poliziesco diventa strumento di limitazione della libertà agognata. Una libertà sospesa di cui si aspetta la restituzione, data per scontata, sotto qualsiasi forma: modulata, centellinata, scaglionata e regolamentata attraverso i canoni propri del linguaggio autoritario, della categorizzazione burocratica o della reclusione militare, ma il liberi tutti di certo ci sarà, pena il crescere di una tensione sociale che sin dall’inizio i signori del potere conoscono, ancor prima di temere e sono in grado di prevenire e controllare in ogni modo.
Si affaccia così un altro aspetto di cambiamento, stressato giocoforza dall’azione dell’isolamento epidemiologico: il rifugio liberale dell’individuo, casa e famiglia, non sarà più tale, visto che si sono caricati del peso della scuola, del lavoro, del tempo libero, facendo assumere a tutto questo e molto altro ancora il sapore dominante della reclusione. L’isolamento pandemico ha fatto diventare insopportabili le mura domestiche dando corpo alla voglia di fuggire. Per molte donne un fatto presente, purtroppo, già da tempo. La casa non più come mito liberista di salvezza dalle brutture della società dei consumi, del profitto e dello sfruttamento ma come trappola per topi in cui la realtà esterna ti raggiunge e non ti lascia più via di scampo. Luoghi chiusi come quelli in cui si sono ritrovati centinaia (migliaia) di anziani ricoverati nelle case albergo o nelle residenze protette, in quelle che erano l’ultimo rifugio assistenziale ancor prima che sociale, lembi estremi delle istituzioni totali, dove sono stati contagiati residenti, assieme agli operatori sanitari; in cui si sono ammalati, in cui sono morti.
Non solo Sars-CoV-2
Uno dei tanti tragici riflessi del crollo verticale del sistema di welfare occidentale e di quello italiano per primo, quasi in maniera paradigmatica. La lettura epidemiologica e clinica, scientifica e politica, antropologica e sociologica della pandemia del 2020 avrà bisogno di molti più dati di quelli ora disponibili. Avrà bisogno che le torbide acque del contemporaneo lascino spazio ad un flusso migliore delle idee, più trasparenti e meno condizionate dagli eventi, facendo posare dolori e lutti, condizionamenti ed interessi, strumentalizzazioni e stupidità diffuse in ogni dove, dalle più basse classi sociali fino ai vertici dei signori del potere. I decenni prossimi daranno ulteriori interpretazioni del presente, ma qualcosa si può azzardare su quanto accaduto, nel Bel Paese in particolare, alle porte della primavera del 2020.
La specificità tutta italiana di essere stato il primo paese occidentale ad aver mostrato repentinamente un collasso strutturale all’aggressione del virus, con scelte utili unicamente, in un primo momento, ad una sua ulteriore azione devastante. È necessario scindere in due gli elementi da analizzare. Da un lato le questioni propriamente epidemiologiche ed infettivologiche legate al Sars-CoV-2 ed al Covid-19, dall’altro la valutazione dei fattori che ne hanno facilitato l’azione. Nel primo caso c’è molto da dire, ma non è questo l’ambito in cui parlare di caratteristiche proprie del ceppo virale, della patogenesi e dell’evoluzione della malattia, dei meccanismi di azione del contagio e molto altro ancora. Si rischia di scivolare in un tecnicismo fine a se stesso se non pericoloso in quanto può, se non ben esposto e non ben capito, legittimare una lettura antiscientifica pronta a cogliere tutte le sfumature ritenute utili per una infondata narrazione complottista. Più che a questa parte è bene porre attenzione alle condizioni presenti e funzionali all’esplosione della pandemia. Non si tratta tanto di riuscire a capire chi è stato il paziente zero, oppure se il virus abbia viaggiato in business class od altro, quanto di mettere in luce i determinanti socio-economici di questa pandemia.
Se ancora all’inizio del terzo millennio l’Italia si vantava di essere il secondo paese al mondo per le performance del suo sistema sanitario (posizione contestata quasi subito dall’OMS in base ad alcuni indicatori erronei considerati) e di essere il paese tra i più longevi del mondo, con una aspettativa di vita tra le più alte, la realtà era ben altra. La pubblicità sorridente del compleanno della sanità pubblica per i suoi 30 anni (un’infermiera con un sorriso da star hollywoodiana), già parlava di qualcosa che non esisteva più; destrutturato a colpi di privatizzazioni, tagli continui e messo praticamente alla mercé dei satrapi locali di un regionalismo in cui non si aveva più un Servizio Sanitario Nazionale, ma ben 19 servizi sanitari regionali e due provinciali, spesso molto differenti fra loro, spesso molto diseguali nelle risposte per la salute ed iniqui verso gli utenti: i cittadini italiani.
Ad una contrazione continua della disponibilità di posti letto e di personale, di ospedali e di strumenti diagnostici, corrispondeva, per assurdo, un aumento delle spese che nella realtà rivela l’inazione nei confronti di una grande malattia interna al sistema sanitario – e del welfare in generale – propria di ogni sistema di potere e profitto: la corruzione. Mafia e clientelismo, mercato e malaffare, ad ogni livello, nel Servizio Sanitario Nazionale hanno trovato spesso terreni molto utili per introiti milionari (in euro) a fronte di ricadute penali decisamente discutibili. Il virus della pandemia in corso ha trovato un sistema sanitario in cui si faceva la fila per ore nei Pronto Soccorso perché o da un lato non veniva fornita alcuna risposta ai bisogni di salute della persona, o da parte della persona stessa, intossicata di una cultura liberista della salute e di una visione immanentista della scienza, al limite dell’integralismo religioso, arrivava angosciata e ignorante delle sue reali condizioni, in cerca di risposte a tutti i costi. Oggi quasi ci si dimentica del fiume di articoli sulla malasanità o delle aggressioni verso il personale nei vari nosocomi ancora diffusi pochi mesi fa.
Per contro, il ricorso alle prestazioni del mercato, diagnostiche e terapeutiche, ha eroso in questi ultimi anni, il reddito di molte famiglie e non sempre sono stati funzionali ai bisogni di salute. Il SSN non poche volte è apparso come risorsa residuale per la risoluzione di problemi. La cronicità della malattia è stata innalzata a deus ex machina di tutti i problemi della sanità italiana, per poi diventare un eccellente terreno di guadagno da parte della sanità privata, attraverso varie tipologie di strutture residenziali e, vista l’incapacità dei servizi, della comunità, del territorio e delle famiglie di far fronte all’assistenza in altra maniera. Un terreno che in molte situazioni ha consentito, causa incapacità politica e imprenditoriale, di far entrare il virus in queste strutture dalla porta principale.
Va detto che l’allungamento della vita in Italia, se può essere interpretato come un buon segno di progresso e anche di un generico benessere, mostra al tempo stesso una differente declinazione interna alle classi sociali dove, al diminuire del reddito e dell’istruzione, peggiorano le condizioni generali in cui ci si arriva a superare gli ottanta o i novant’anni. In merito, sul piano prettamente sanitario vanno valutati, anche per gli anziani, gli anni vissuti in buona salute, che nell’ultimo decennio sono stati progressivamente erosi perdendo tra i 7 e i 10 anni, appunto, di buona salute dopo i sessanta anni.
L’emergenza delle disuguaglianze
La tutela della salute di una popolazione però non è, e non è stato mai, solo il sistema sanitario a disposizione. Essa è legata ad un insieme di fattori noti come determinanti socio-economici e riguardano in primo luogo il reddito e le condizioni di lavoro, le politiche sociali e abitative, l’istruzione e la cultura, le relazioni e le abitudini di vita. In questo l’Italia si presenta a principio del 2020 forse in uno dei momenti di maggiore debolezza della sua storia. È il primo, fra i 17 paesi più industrializzati per analfabetismo funzionale, il che significa una diffusa incapacità di capire e gestire la realtà circostante, di essere in grado – a titolo di esempio – di comprendere buona parte delle istruzioni del cellulare di ultima generazione che si è appena acquistato.
L’Italia del XXI secolo è il paese in cui si pensa che la popolazione straniera sia presente in misura del 20/30%, e sia la responsabile di tutti i mali della società. È il paese della paura alimentata sui social, da media e da politicanti utili all’istupidimento ed all’imbarbarimento generale, in cui razzismo, fascismo, competizione ed egoismo sembrano tornare ad avere cittadinanza, creando un consenso diffuso che cerca più il piacere dello slogan urlato che non la risoluzione del problema. La democrazia parlamentare, che dovrebbe essere, nella visione liberale, il luogo del confronto e del dibattito politico, negli ultimi anni ha rivelato, a colpi di post su facebook o su twitter, ancor più la sua vacuità e la sua sudditanza agli interessi del profitto di pochi. Molti i servi sciocchi di ogni condizione e schieramento, attaccati all’elemosina dei privilegi derivati dalla poltrona del potere, che hanno soddisfatto tutte le scelte di destrutturazione del welfare nazionale e degli interessi liberisti dei signori dell’economia, per poi fuggire le proprie responsabilità, specie in campagna elettorale, scaricando la colpa su una generica quanto indefinita casta di politicanti (di cui essi stessi però fanno parte), da mandare a casa, punire, ridurre di numero, sanare, e molto altro ancora. Un brutto film già visto nelle premesse della Repubblica tedesca di Weimar che, forse, la Covid-19 ha per il momento sospeso. Forse.
Paradigmatico, in merito, il caso della Lombardia. Sulle cause che hanno portato questa regione ad essere quella maggiormente colpita dalla pandemia si dovrà valutare tutte le complessità di azione ed i fattori ad essa correlati, ma alcuni elementi debbono essere sottolineati. È la regione tra le più industrializzate ed inquinate del paese, con un clima che peggiora le condizioni di vita. Dalla Lombardia è anche partito il “risanamento” della politica italiana con la stagione di mani pulite all’inizio degli anni ’90 e, sempre in Lombardia, quella stagione sembra non essere riuscita a debellare l’intrusività del profitto privato e del malaffare, regalando una sequela continua di governatori e giunte di centro-destra rampanti per quanto famelici – a spese ovviamente degli interessi dei più deboli. La stessa sanità lombarda, da diversi anni, è il terreno di sperimentazioni e destrutturazioni di ogni tipo a discapito dell’offerta universalistica e dell’equità della salute. Il governo regionale poi, in piena crisi, ha mostrato molte criticità le quali, purtroppo, sono apparse evidenti nelle immediate ricadute epidemiologiche a discapito dei cittadini. Un quadro facilmente sovrapponibile, in diversa misura, ad ogni altro piccolo feudo regionale italiano che in cui la precarietà del lavoro dipendente, la contrazione continua dei salari, l’atomizzazione dei problemi e delle risposte ha costruito un grande paese malato.
Politicanti di ogni tipo hanno millantato risposte ad un malessere generale gridando al bisogno di una sicurezza fatta di telecamere, manganelli, leggi speciali e non di migliori salari, lavori salubri e sostegno della salute pubblica. Ancora la Lombardia, nella fase in corso dell’attuale pandemia, assieme ad altre regioni e ai suoi telegenici governatori, ha fatto scelte diverse da quelle del governo centrale, spesso in una sorta di fuga in avanti protezionistica o, in altri casi, rimanendo su un terreno più arretrato. Nella spaccatura fra centro e periferia le disuguaglianze nella salute si sono moltiplicate: fra Nord e Sud, fra tessuti metropolitani e comunità urbane, fra ricchi, sempre più ricchi, e poveri, sempre più poveri.
L’epidemia ha attecchito in maniera esponenziale in una società stratificata, classistica, egoista. Ancor prima di far ritorno a livello di coscienze individuali e collettive, le classi sociali hanno riacquistato la scena facendosi protagoniste di quella che in realtà è una grande guerra di classe (condotta dai padroni) in corso da anni, alla cui coda finale si è innescata l’azione del Sars-CoV-2. Quasi come cento anni fa. Allora la Prima Guerra Mondiale era nella sua fase conclusiva e l’influenza spagnola mieteva milioni di vittime. Oggi, fortunatamente (salvo devastanti cambiamenti) le vittime sono molto meno, ma la guerra dei privilegiati a spese degli ultimi va avanti inarrestabile.
Virus e questione sociale
In questa Italia della pandemia non si è dunque uguali di fronte al contagio. La lettura meramente numerica dei colpiti rischia di non conduce da nessuna parte, anche perché molti esperti sottolineano come i dati a disposizione siano molto inferiori alla rappresentazione della realtà, dato che i tamponi sono stati eseguiti in maniera difforme sul territorio nazionale e la valutazione dei pazienti malati, paucisintomatici, asintomatici o dei decessi stessi, può essere stata in molti casi lacunosa. Molte, troppe sono le voci di accusa che da più parti nel paese si sono sollevate in merito
Il quadro finale è quello di un paese costretto in un limbo sociale prima ancora che clinico, in attesa di poter tornare ad una normalità che sente, giorno dopo giorno, non coincidere più con quella del passato. Le scelte italiane, seguite da alcuni paesi, dopo i primi momenti di incertezza che hanno legittimato indirettamente momenti devastanti sul piano del contagio (eventi sportivi, attività lavorative, spostamenti di massa, assalto alle farmacie per accaparrarsi mascherine e gel e molto altro), hanno fatto scuola. Altri paesi hanno mostrato il volto stupido ed arrogante del potere che, in maniera ideologica, ha inneggiato prima ad un garantismo delle scelte individuali, di mercato, liberali e liberiste, disposto a sacrificare vite a migliaia – si pensi alle dichiarazioni di Johnson e Trump – per poi scegliere altre strategie quali la restrizione totale della vita e delle vite (lock down) od una moderata libertà (come la Svezia, al momento in cui si scrive); in ogni caso lo Stato ha fatto sentire il suo peso autoritario ancor prima che autorevole.
Nei paesi occidentali per le strategie descritte o nei paesi poveri per l’abbandono, prevedibile quanto disumano, o meglio inumano, di poveri, malati e famiglie al loro triste destino, gli Stati tornano a mostrarsi nella loro veste più tipica: quella del gendarme che controlla il territorio, regola il passaggio delle genti e chiede oboli e tasse per ogni minima cosa, senza che vi sia un concreto ritorno in termini di beni e servizi. Al crollo del sistema di welfare, delle capacità di prevedere, organizzare e contenere la pandemia, da parte dei piccoli feudatari locali, risponde in loro soccorso lo stato militare, fornendo ospedali da campo, navi ospedale, mezzi di trasporto, personale, strumenti. Una risposta che nega qualsiasi capacità e legittimità di governo della cosa pubblica ed abdica all’intervento della casta dei guerrieri per risolvere i problemi del paese.
Foucault parlava di quadrillage, analizzando gli interventi in Francia durante la pestilenza del XVII secolo, dove le città, divise in quadranti, venivano sorvegliate nell’isolamento domiciliare da pattuglie di armati. Leggi ferree imponevano in punta di spada il governo di una realtà ingovernabile, per l’epidemia dilagante e per l’incapacità della scienza di dare risposte alle tragedie del presente. Nelle città del XXI secolo molte, troppo cose, ricordano le pestilenze del passato ma forse la realtà è peggiore più di quanto non si creda e, fortunatamente, il basso numero di vittime (al momento in cui si scrive) è uno degli elementi positivi, forse l’unico, di un cambiamento epocale che si sta vivendo o, ancor più, subendo.
Il sogno dell’utopia dell’età dei lumi subisce un colpo mortale. La forza dei numeri, della scienza e della ragione, la costruzione progressiva di un benessere sempre più diffuso ed allargato fino a creare strutture sociali con un grande ceto medio in movimento ed un apice dei tanto ricchi e una base dei tanto poveri, molto ristretta, ha subito un drastico cambiamento. I tanto ricchi, forti delle loro risorse, hanno violentemente schiacciato in questi anni il ceto medio verso il basso, allontanandolo da loro ed aumentando la stratificazione sociale dei tanto poveri. Il ceto medio terrorizzato (ed anche i poveri che si sentivano ceto medio o ambivano diventare) ha fatto tutto ed il contrario di tutto pur di mantenere le sue posizioni di rendita, le sue speranze, le sue utopie.
Già dagli anni ’80 si è stati disposti a credere a chiunque potesse lenire l’angoscia per il futuro. Il sogno americano, infranto dalla recessione degli anni ’70 e dalla sconfitta in Vietnam, chiamava al potere un guitto di terza categoria (Ronald Reagan), mentre nelle isole britanniche, la voglia di ritorno ai fasti dell’impero eleggeva la Lady di ferro Margareth Thatcher. Utili strumenti per un accelerazione dei desideri più sfrenati del liberismo dominante. Una corsa all’accaparramento che è stata sempre più rapida e distruttiva in questi ultimi quarant’anni.
Nel mondo sanitario di oggi mancano letti, personale e strutture e si attiva la corsa all’emergenzialità strutturale, chiedendo aiuto agli stessi che hanno devastato il SSN: i privati. Berlusconi e Della Valle fanno donazioni milionarie, i calciatori si dimezzano lo stipendio (almeno questo è il messaggio diffuso al momento), vip di ogni genere donano a destra e a manca. Tutti bravi e pronti. Molti applaudono. Pochi sottolineano come i grandi patrimoni di pochi sono stati costruiti sull’impoverimento di molti e che fra i tesori saccheggiati c’è anche la sanità pubblica. Il virus della pandemia del 2020 è la cartina al tornasole di un punto di non ritorno, della fine della società liberale nata dalla Francia rivoluzionaria. Non che sia stata la migliore fra quelle conosciute ma il mondo che si prospetta nell’immediato domani sembra essere più simile a quello di Blade Runner che non di una qualsiasi utopia sociale conosciuta.
Al momento in cui si scrive ancora si è in piena fase uno della pandemia, quella delle restrizioni totali: chiusi in casa con poche libertà di movimento. La fase tre dovrebbe essere un ritorno alla normalità – dovrebbe. Già molti sollevano la questione che per maggiore sicurezza, la stessa fase due vedrà una maggiore libertà ma tempi più lunghi di realizzazione, cioè si arriverà, forse, fino al prossimo autunno per far fronte ad una recrudescenza dell’epidemia. Oppure si andrà oltre l’inverno prossimo? Quanto durerà la fase due e quanto ci cambierà? Diventerà forse normale essere limitati nei movimenti, nei diritti, negli spazi e nelle relazioni? Difficile da dirsi.
La struttura del mondo di domani non è certo tra le più tranquillizzanti: crisi del pensiero scientifico ed accelerazione verso le facili spiagge delle credenze, dei miti, delle superstizioni e degli stereotipi; le fake news tanto odiate e tanto ricercate. Si accentua poi la fuga dal privato, perché luogo di reclusione per andare in un mondo in cui il concetto di collettivo e comunità non ha trovato né radici, né contesti socio-economici di riferimento, né tanto meno ambiti di sviluppo. Le appartenenze razziali, religiose e nazionali già da tempo sono state mobilizzate allo scopo. Lo Stato nazione – di là della facile ed appagante retorica di inni, striscioni e slogan di sorta – già agonizzante per l’opera di imperi, globalizzazioni e potentati economici si mostra senza timore nella sua forma più schietta indossando l’armatura del gendarme, visto come fonte di sicurezza, anche nei confronti del contenimento della rabbia sociale.
Le spese militari non subiranno alcun tipo di flessione, nonostante qualche flebile voce di denuncia, ma probabilmente verranno ulteriormente aumentate dato che, nel mondo post-pandemia, lo sviluppo economico non seguirà più i dettami progressisti di un benessere diffuso ma la necessità di garantire livelli alti del PIL, delle esportazioni e delle importazioni a prezzi stracciati. Un nuovo colonialismo si preannuncia? No, niente di nuovo. Il potere economico europeo non ha mai cambiato di veste da quando ha indossato la tunica dei prodi cavalieri crociati. Ha cambiato solo armi e vite umane da sacrificare.
Non necessariamente il prossimo futuro è già scritto. Diverse le risorse umane e sociali che si stanno sempre più rendendo disponibili: nelle corsie degli ospedali, dentro gli scafandri (DPI) usati dai lavoratori della sanità, sui posti di lavoro negati e insicuri, nella rabbia per il reddito perduto, nella disperazione individuale per la propria sorte in un letto d’ospedale o per la sorte di un caro, di un amico, di un collega. La solidarietà silenziosa e la compassione sofferta, la voglia di fare una passeggiata e la saturazione alle balle dei chiacchieroni del potere dei social o delle istituzioni. La voglia di libertà e di giustizia sociale probabilmente potranno trovare forza e legittimazione nei prossimi mesi, anche per mano di chi non vi è stato “abituato”, ma che l’ha vissuta sulla propria e sull’altrui pelle.
Il potere politico ed economico, le gerarchie istituzionali e culturali, hanno piena consapevolezza di questo e probabilmente si prepareranno a resistere a rivendicazioni di sorta ma sono fatte da uomini. Il potere dominante oggi è fatto da uomini che sono stati formati in una società dove a loro era tutto permesso e, quindi, per la maggior parte incapaci di dire, fare, pensare. L’arrivo della pandemia ha trovato lo sguardo stupito ed annichilito di quell’assessore di qualche territorio che fino a quel momento si era beato di aver raggiunto una posizione di potere in cui poter fare guadagni e favori di ogni tipo, mentre è stato costretto a prendere decisioni, a fare scelte, a mostrare conoscenze che in realtà non possedeva; è stato costretto a fare il lavoro che doveva fare. In molti casi il risultato è stato devastante, sul piano umano, sanitario e sociale.
Anche il cittadino comune non era preparato a tutto questo, ma a differenza del suo padrone che aveva a disposizione tutte le risorse del mondo per nascondere responsabilità e imbecillità, il cittadino comune ed ancor più il lavoratore, lo sfruttato, l’ultimo e il paria della terra, ha dovuto farsi forte solo delle sue conoscenze, dei suoi affetti, del suo coraggio e della sua paura. Un investimento di risorse individuali e collettive che difficilmente verrà regalato a qualche campagna elettorale o alla rassegnazione sociale od ai social. Forse, potrà essere utilizzato come capitale umano e politico per esigere maggiori certezze e garanzie per un futuro più equo per tutti. Per una società più giusta. La pandemia del 2020 ha provocato enormi danni e dolorosi lutti, ma ha costretto lo sguardo e le menti degli ultimi di volgere ancora una volta l’attenzione alla questione sociale. In questo le forze e i saperi, le pratiche e i legami dei libertari non possono mancare all’appello già in corso.
Giordano Cotichelli